Forame Ovale Pervio (PFO) e subacquea

Cos’è il PFO?

Dal punto di vista anatomico il Patent Foramen Ovale, più noto in ambito subacqueo con l’acronimo PFO, è un’apertura di forma ovale ricoperta da un lembo di tessuto che può essere presente nella parete che divide i due atri del cuore.

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Il PFO si raffigura come un’anomalia cardiaca in cui l’atrio destro comunica con il sinistro a livello della fossa ovale presente nel setto interatriale; esso rappresenta il persistere di una caratteristica fetale del cuore e può essere classificato come un difetto del setto inter-atriale (in italiano DIA, in inglese ASD Atrial septal defect).

Prima della nascita la comunicazione tra i due atri è essenziale per la vita del feto.

Durante la vita fetale i polmoni sono inattivi e l’ossigeno essenziale per i tessuti del nascituro proviene dalla madre tramite la placenta e i vasi del cordone ombelicale.

Il sangue quindi fluisce direttamente dalla porzione destra a quella sinistra del cuore tramite il forame ovale che connette i due atri.

Alla nascita, la circolazione placentare viene interrotta, i polmoni iniziano la loro attività respiratoria e il piccolo circolo (quello polmonare) diventa pienamente funzionante.

La pressione atriale sinistra diventa leggermente superiore a quella destra e questa differenza di pressione fa aderire al forame ovale una piccola membrana chiamata septum primum.

Dopo la nascita, non essendo più funzionale, il foro si chiude da sé entro il primo anno di vita; nella maggior parte dei casi, infatti, la membrana si salda alla parete e la chiusura diviene permanente.

Il forame ovale viene invece definito pervio (aperto) quando la saldatura non avviene e la chiusura anatomica risulta imperfetta poiché mantenuta soltanto dalla differenza pressoria.

Il PFO di conseguenza rappresenta la mancata chiusura del foro che permette la nutrizione e l’ossigenazione del feto nel corso della sua vita placentare.

Epidemiologia

 In circa il 30% dei neonati di ambo i sessi la chiusura non avviene del tutto e tra i due atri una cuorepossibile via di passaggio (shunt), più o meno ampia, rimane.

Gli studi eseguiti su reperti autoptici, che permettono una verifica diretta (sono quindi più attendibili), sembrerebbero indicare un numero maggiore di persone che presentano questa anomalia (circa il 35%), mentre gli esami strumentali in vivo, che si basano su misurazioni indirette, forniscono cifre più basse (circa il 20%), con un 6% dei casi che presenta una pervietà definita “larga”, cioè maggiore di 6 mm.

Conseguenze

 Statisticamente parlando, il PFO non dovrebbe essere definito una vera e propria malformazione cardiaca.

Il PFO non può nemmeno essere definito una patologia, esso rappresenta soltanto una (probabile) eziologia, cioè la possibile causa di una malattia.

Infatti nel corso della propria vita la maggior parte dei “portatori” di PFO non viene mai a sapere di averlo, perché il più delle volte esso è asintomatico (cioè non dà alcun tipo di problema).

Solitamente, infatti, il passaggio resta chiuso perché di norma la pressione presente nell’atrio sinistro è maggiore di quella dell’atrio destro e questa differenza tiene premuto il lembo contro il bordo del foro, in modo che il sangue venoso (povero di ossigeno e ricco di sostanze di scarto) non possa entrare a far parte del circolo arterioso (ricco di ossigeno e di sostanze indispensabili alla vita dei tessuti), poiché ciò darebbe origine a una serie di problemi.

emicrania 2Ma in alcune circostanze avviene il contrario ed il foro si apre.

Ciò avviene solo raramente ed in particolari condizioni, ma in questo caso esso può determinare complicazioni.

Si ipotizza che Il PFO sia implicato:

– nei casi di ischemia cerebrale giovanile criptogenetica (cioè di cui si ignorano causa e natura);

– nei subacquei, dove nonostante il rispetto dei limiti della cosiddetta “curva di sicurezza”, può dare adito a quella che viene denominata Mdd inaspettata.

L’Azoto che è in noi…

Nel corso di una qualsiasi immersione l’organismo assorbe i gas inerti presenti nella miscela respiratoria, qualunque essa sia.

L’entità dell’assorbimento dipende da una miriade di fattori sia di carattere individuale sia ambientale, ma in ogni caso la quantità è direttamente proporzionale alla profondità ed al tempo trascorso in immersione.

Questo è causato dal variare della pressione circostante ed in particolare i vari compartimenti tessutali tendono ad assorbire gas inerti quando la pressione aumenta (discesa) ed a rilasciarli quando questa si riduce (risalita).

In ogni caso il bilancio non è mai pari a zero, perché la fase di assorbimento risulta sempre essere maggiore di quella di rilascio, per cui nel corso delle varie fasi dell’immersione l’organismo del subacqueo accumula nei propri tessuti una certa quantità di gas.

Al termine dell’immersione, quindi, qualsiasi comportamento cautelativo si sia di volta in volta messo in atto per ridurre la formazione di bolle e favorire l’eliminazione dei gas, una certa quantità, denominato azoto residuo, rimane disciolto nei tessuti ed impiega ore o anche giorni per essere smaltito del tutto.

Nella stragrande maggioranza dei casi, rispettando i limiti imposti dalle tabelle di immersione o dai computer e mettendo in atto dei comportamenti cautelativi (ridotta velocità di risalita, tappe di decompressione, deep stop, soste di sicurezza, impiego di aria arricchita), l’azoto residuo non comporta alcun problema, perché il numero e la grandezza delle microbolle non sono tali da creare complicazioni ed il nostro organismo è in grado di tollerare tranquillamente fino a un certo grado di sovra-saturazione.

cuore 1Questo accade perché le bolle gassose originate dall’immersione subacquea si formano nel sangue venoso che le veicola dai vari compartimenti tessutali e vi rimangono confinate finché non vengono gradatamente eliminate con la respirazione attraverso i capillari polmonari (filtro polmonare).

Il sangue arterioso invece di norma non contiene microbolle poiché non riceve i gas inerti direttamente dai tessuti, ma se in caso di eccessiva sovra-saturazione il filtro polmonare non ce la fa a smaltirle tutte e/o in caso di passaggio attraverso il PFO, le bolle possono procedere nella circolazione arteriosa e possono comparire sintomi più o meno gravi di Mdd.

Camera iperbaricaQuando la trasgressione è palese, cioè quando viene appurato che nel corso dell’immersione sono stati commessi degli errori, la comparsa dei sintomi può essere motivata e si parla di Mdd giustificata.

Quando invece i sintomi compaiono pur avendo rispettato i limiti della curva di sicurezza si parla di Mdd inaspettata (o immeritata).

Semplificando, nel caso di Mdd giustificata i sintomi compaiono quando la tensione totale dei gas disciolti nei tessuti del subacqueo supera la pressione ambientale circostante e provoca la formazione di bolle gassose all’interno del circolo ematico o dei tessuti stessi.

Le bolle possono ridurre o bloccare del tutto il flusso sanguigno arterioso, e con esso l’apporto di ossigeno, verso una o più aree dell’organismo, provocando danni cellulari da ipossia e, nei casi più gravi, da anossia.

Nel secondo caso (Mdd inaspettata) è stato tirato in ballo il PFO.

Può accadere che un aumento (anche solo temporaneo) della pressione intratoracica possa determinare lo spostamento del lembo e quindi favorire il passaggio (shunt) delle bolle (presenti nel sangue venoso anche dopo immersioni in curva) dall’atrio destro a quello sinistro.

Così facendo le bolle entrano nel circolo arterioso e possono provocare forme di Mdd non altrimenti giustificate dal profilo dell’immersione, cioè anche senza la necessità di sovra-saturazione.

Il passaggio delle bolle dipende dal gradiente pressorio e dalle dimensioni del foro e ambedue possono variare di volta in volta.

L’aumento della pressione intratoracica può essere determinato da vari fattori, tra i quali la manovra di Valsalva, tosse, vomito, mute o cinghiaggi (gav, cintura dei piombi) troppo stretti.

Ma, mentre tutte le altre circostanze possono verificarsi in ogni momento nel corso di qualsiasi immersione, il Valsalva quasi sempre può essere determinante solo nelle immersioni ripetitive.

Discesa 2La compensazione (il Valsalva) deve essere effettuata solo nella fase iniziale dell’immersione, quella di discesa, per compensare l’aumento della pressione quando si passa dalla superficie (1 atm) a pressioni maggiori (poco meno o poco più di 1 atm ogni 10 mt di profondità, a seconda che si tratti di acqua dolce o salata) ed evitare che questa possa provocare danni al timpano.

Nella fase di risalita non occorre compensare perché essa avviene in maniera automatica e involontaria.

Va da sé che all’inizio della prima immersione non può esserci alcun quantitativo di azoto residuo, che compare solo quando si passa un certo tempo in profondità, quindi in tal caso l’apertura del PFO secondario al Valsalva non può fare alcun danno perché in circolo non ci sono ancora bolle che possano attraversare il foro.

Ma se nel corso della prima immersione, dopo un certo tempo che si è stati in profondità, per un qualsiasi motivo si risale di qualche metro e poi si ritorna verso il fondo (immersione a yo-yo), bisognerà compensare di nuovo ed in questo caso le bolle si saranno già formate e potranno quindi attraversare il PFO.

Correlazioni tra PFO e Rischio di Mdd

 Qui, purtroppo, entriamo in un campo minato perché i pareri degli esperti sono discordi, i dati controversi e gli studi in merito ancora in corso.

Dagli studi effettuati è emersa una significativa maggiore incidenza di PFO nelle forme gravi di Mdd (Mdd di tipo 2, sintomi cerebrali).

emicrania 3In quelli del DAN il PFO è risultato presente nell’88% dei subacquei con danni cerebrali e nel 40% dei subacquei con sintomi neurologici periferici, ma i sub colpiti da Mdd erano portatori di PFO particolarmente ampi.

Il coinvolgimento del cervello appare logico perché le bolle nella circolazione arteriosa salgono direttamente verso l’alto.

Tutte le altre forme di Mdd, giustificate e inaspettate, hanno mostrato un’incidenza di PFO di circa il 35%, come nella normale popolazione.

Gli studi effettuati mostrano che il rischio reale non è poi così alto.

I subacquei presentano un rischio di Mdd di circa 1 episodio ogni 6000 immersioni (statistiche del Dan europe per immersioni con profondità maggiore ai 30 mt).

Considerando le immersioni effettuate a profondità inferiori ai 30 mt, il rischio scende a circa 1 episodio ogni 40.000 immersioni.

In presenza di un ampio PFO i dati indicano un rischio 6 volte maggiore.

Sebbene gli studi dimostrino che c’è un’alta probabilità di rischio di Mdd (cerebrale o spinale) nelle immersioni con decompressione, nell’insieme il rischio assoluto rimane basso.

Altri autori ritengono che il legame tra PFO e Mdd continui a rimanere controverso.

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I dati a sostegno di questa tesi considerano il fatto che nel Regno Unito vi sono circa 50.000 sub praticanti e, secondo le statistiche, più di 15.000 tra essi dovrebbe presentare un PFO.

Ebbene, ogni anno in Gran Bretagna si verificano circa 100 casi di Mdd di tipo neurologico, e ciò indica che il fatto di avere lo shunt non necessariamente debba portare a Mdd.

Un PFO potrebbe sì incrementare il rischio di incidente con sintomi neurologici, ma tale rischio rimane comunque molto basso in termini di popolazione.

Si deve, comunque, sempre considerare lo specifico tipo di patologia e la morfologia del PFO, prima di poter stabilire un chiaro nesso con un maggior rischio decompressivo.

Purtroppo la medicina NON è una scienza esatta come la matematica.

In medicina subacquea le molteplici variabili individuali, ambientali e temporali implicate nei processi biologici il più delle volte non rendono esattamente identificabili né causeeffetti.

Inoltre per poter dimostrare con certezza una tesi occorrono anni di ricerche a tavolino e di prove sul campo o in laboratorio (e talvolta anche dopo anni i risultati sono contrastanti) e la subacquea ricreativa è un’attività ancor troppo recente perché ciò si possa verificare.

 

 

About Sergio Discepolo

Giornalista pubblicista, Underwater photographer, filmaker, freelance. Un passato (lontano) da Marketing Manager nel settore farmaceutico, poi una vita dedicata al mare o, meglio, il mare che mi ha fatto vivere la vita...

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